Ieri sul Giornale di Vicenza è stato pubblicato un reportage sulla base della Fontega, dove sostanzialmente viene detto che è "solo" un deposito di munizioni e proiettili. Dall'articolo sembra poi che chiunque voglia fare una visita è ben accetto, possa entrare e pure accompagnato per un fantastico tour turistico. Si sottolinea come gli allarmi lanciati da noi sulla presenza di armi nucleari e sui lavori sono infondati, che non c'è niente da nascondere,etc..
Non penso proprio che chiunque possa visitarla e soprattutto liberamente e non solo per la questione del "segreto militare". Poi noi abbiamo sempre sostenuto che quella base ha ospitato per anni missili nucleari, come per altro ammise un ex-generale dell'esercito americano nel 2003 sulle pagine di un giornale locale. Il fatto che per anni non ci si poteva avvicinare, mentre adesso sì, mi sembra che sia una chiara dimostrazione che qualcosa da nascondere negli scorsi anni ci fosse eccome. Ammesso e concesso che adesso ci siano "solo" munizioni "per uccidere esseri umani", come è scritto sull'articolo, chi ci garantisce che in un futuro non possano depositare altre armi o bombe pericolose? Sarebbe interessante visitare i bunker in modo indipendente, magari con apparecchiature adatte a verificare la presenza di radiazioni e soprattutto a sorpresa. Quando una visita è programmata, si fa a far sparire determinate cose…. Cambiando un attimo discorso segnalo questo articolo trovato in un blog dal titolo "Italia tra i paesi non protetti dal sistema missilistico pensato dagli Usa". Tornando un attimo alla base della Fontega ecco i due articoli di ieri in versione integrale a disposizione di tutti:
Ecco a disposizione di tutti i due articoli di ieri:
Proiettili nei bunker della guerra fredda
di Marino Smiderle
isitare la base del Tormeno? Why not? Perché no? La candida risposta del maggiore Ryan Dillon stride un pochino con l’alone di mistero che, da sempre, o perlomeno dalla metà degli anni 50, circonda i bunker del Tormeno. Leggende alimentate dal riserbo mantenuto dagli americani su quei bunker ricavati dalle colline vicentine, dove l’esercito avrebbe conservato chissà quali diavolerie belliche. Ordigni nucleari, missili con testate chimiche, bombe atomiche e via favoleggiando. Ma erano favole o Vicenza è stato davvero un fronte cruciale nel corso della lunga, estenuante, guerra fredda? E adesso, a distanza di tanti anni, cosa diavolo è rimasto in quel ventre berico a suo tempo squartato dalle ruspe dello zio Sam?
Cerchiamo di scoprirlo in una giornata da guerra fredda, grigia come la Romania di Ceausescu e con le nubi gravide di pioggia. Comune di Arcugnano, via Fontega, una strisciolina d’asfalto che come un boa passa davanti all’ingresso della base. Fino a qualche anno fa non si poteva neanche imboccarla, in quanto parte integrante della base stessa. Il fatto che adesso famigliole in cerca di svago domenicale, cercatori di funghi e abitanti del quartiere possano passarci a piedi, in auto e in bici dovrebbe essere un’ulteriore prova che là dentro non ci dovrebbe essere niente di particolarmente pericoloso. Quando poi si scopre che il servizio di vigilanza e sicurezza è gestito dagli uomini dell’istituto privato North East Service (Nes), professionisti indiscutibili ma non certo adeguati, o comunque sufficienti, a tenere lontani i malintenzionati dalle bombe atomiche.
Sì, però i bunker sono ancora lì, belli e funzionanti. Anzi, ultimamente quelli del comitato No al Molin hanno lanciato l’allarme: «Al Tormeno stanno costruendo tunnel segreti per gestire e nascondere meglio gli ordigni nucleari». Andiamo a dare un’occhiata? Why not.
Fino a qualche anno fa, come detto, non si poteva neanche passare davanti all’ingresso. Oggi si può, ma è vietatissimo scattare fotografie. Per Il Giornale di Vicenza la Setaf fa uno strappo alla regola e il cronista, oltre ai propri occhi, può utilizzare l’obiettivo di una digitale. Ore 14, all’ingresso della Fontega ci aspettano. Col maggiore Dillon, anch’egli al debutto oltre il filo spinato del Tormeno, superiamo il primo ingresso, custodito dagli agenti della Nes. Basta lasciare un documento e consegnare il cellulare per ottenere il pass agognato. Oltre questo cancelletto non risulta che mai nessun giornalista abbia mai messo piede, e tanto meno macchina fotografica. Se adesso ce n’è uno, vuol dire che non c’è nulla da nascondere: e con questa incoraggiante premonizione ci troviamo immersi in un clima, non solo meteorologico, da guerra fredda.
«Nice to meet you», piacere di conoscerla, è il saluto cordiale di Terry Davenport, corpulento manager dell’Oklahoma, una vita da militare dell’esercito nel settore gestione munizioni, e ora assunto come civile sempre dallo zio Sam. Niente stellette, niente ufficiali, niente soldati. Scusi, ma non è una base militare questa?
«No, in effetti non lo è – risponde il cordiale Davenport -. Io mi ritengo una sorta di dettagliante delle munizioni, dei proiettili e questo è l’Asp 7, che sta per Ammunition Supply Point numero 7. In Europa ce ne sono 4, in Italia uno soltanto, questo, oltre al deposito generale di Camp Darby. Non ci sono segreti, come può vedere. Anzi, come potrà vedere tra poco. Vogliamo incominciare?».
Why not, mister Davenport. E, per sgombrare subito il campo dagli inquietanti dubbi dei No-Dal Molin, conviene partire da quegli scavi, da quelle ruspe, da quel primo bunker sderenato che sta sotto la clinica Villa Margherita. Una stradina inzaccherata di fango, delimitata da una ringhiera di plastica verde, conduce all’imboccatura del primo bunker. Operai italiani (ma la ditta è la tedesca Bilfinger Berger) stanno lavorando alacremente. «Ecco, vede, la terra e l’acqua avevano vinto la resistenza del cemento armato – spiega Davenport -. Inevitabile, dopo 50 anni. Per questo abbiamo deciso di riparare il tutto e di ristrutturare le varie strutture a rischio. Ho letto anch’io di bunker segreti, di armi nucleari. Facciamo così, se mi trova un tunnel me lo segnali che faccio rapporto».
Un’impalcatura interna, un complesso intervento di impermeabilizzazione e le ruspe in continuo movimento. E come tetto, una collina. Un lavoraccio, insomma. Per farne che?
«Questa non è una base militare – ripete Davenport – questo è un "negozio" di munizioni. Io sono qui da neanche due anni e non so cosa questi bunker custodissero negli anni passati. È probabile che ci fosse qualcosa di più di qualche proiettile». Non dice che c’erano ordigni nucleari, ma non lo esclude neppure. Era la guerra fredda, bellezza, e Vicenza era una frontiera, un confine da difendere a tutti i costi. Ordigni che, fortunatamente senza essere mai usati, hanno contribuito a sbriciolare il muro di Berlino. E ora la frontiera è da qualche altra parte, più spostata verso il Medio Oriente, il nemico è il terrorismo islamico. Vabbè, altra storia, sta di fatto che questi bunker sono ancora qui. Perché?
«Beh, intanto andiamo a vederli», prende tempo Davenport. Sono nove caverne in tutto, ma una verrà presto abbattuta per l’impossibilità di rimetterla in sesto. Un aiutante del manager dell’Oklahoma apre il pesante portone di acciaio, che scivola sulle ruote e svela il contenuto del bunker più grande, nello stomaco del Tormeno. Casse di munizioni, una sopra l’altra, pronte per essere spedite ai vari battaglioni. Sulla parete c’è una piccola targa gialla con strani numerini. Cosa significano quei numerini? «Indicano quali e quanti oggetti possono essere stipati nel bunker», chiarisce Davenport.
Oddio, oggetti. Diciamo pure bombe, proiettili, armi e quant’altro. «No, dobbiamo essere precisi – puntualizza -. Al livello di minima pericolosità ci sono i proiettili per armi, lunghe e corte, oltre che i mitra. Come vede nell’ultima fila c’è scritto unlimited, illimitati: vuol dire che possiamo accatastare casse di munizioni fin quando c’è posto. Se invece ci fossero ordigni ad alto potenziale, bisogna misurarne la potenza: a seconda di dov’è il bunker e della distanza dalla prima zona pubblica, ci sono le prescrizione per la quantità massima che possiamo prevedere».
Più alto è il potenziale della bomba, meno bombe ci possono stare. E tra l’una e l’altra, quindi, ci deve essere uno spazio predeterminato. In caso di malaugurato incidente, poi, davanti al portone in acciaio del bunker è stato predisposto un terrapieno capace di attutire il colpo e di impedire, per quanto possibile, che la deflagrazione causi danni altrove.
«Via Fontega è la strada che costeggia l’ingresso del deposito – osserva Davenport – e questa presenza ha ridotto di molto la ricettività di materiale esplosivo da parte di questi bunker. Quando era in uso all’esercito americano, le distanze dal primo luogo pubblico erano considerevoli e quindi si potevano conservare bombe a più alto potenziale. Ora non è più così, solo bullets, proiettili».
Le nubi trattengono la pioggia ma l’atmosfera resta plumbea. Potessero parlare, questi muri impregnati di umidità e di terriccio svelerebbero i piani strategici e gli armamenti segreti di svariati presidenti americani, da Eisenhower (sotto il cui comando vennero costruite le basi vicentine) a Kennedy, da Johnson a Nixon, da Ford a Carter fino a Reagan, il becchino della guerra fredda. Ma i muri non parlano, lasciano solo immaginare.
Casse di proiettili, zeppe di istruzioni, pronte per l’uso. In tutti i bunker ce ne sono a bizzeffe. «Ma è poca cosa, mi creda – giura il capo -. Io ho lavorato negli Stati Uniti, in Germania, durante la guerra fredda e vi assicuro che l’attività qui a Vicenza è irrilevante. Un a goccia nel mare dei depositi munizioni dell’esercito americano».
Di fianco all’ultimo bunker, quello più vicino a via Fontega, ci sono i resti che i muratori hanno portato dopo gli scavi. È da queste "tracce" che qualcuno ha dedotto la realizzazione di fantomatici tunnel, di nuovi segreti nucleari. «Non le faccio vedere dove porta quel tombino – scherza Davenport – perché sennò cosa scoprirebbe. Al di là di quello che ha potuto vedere con i suoi occhi, ci sono due segnali inequivocabili del fatto che in queste splendide colline non sono nascosti ordigni nucleari, né bombe tradizionali ad alto potenziale. Il primo è semplice: vede per caso mezzi semoventi, piccole ruspe, o altro? Tranne quelle dei lavoratori, che servono a riparare i bunker, neanche l’ombra: se ci fossero ordigni nucleari, le assicuro che sarebbero necessari per lo spostamento e per la gestione».
Questioni tecniche, ci fidiamo. Ma l’altro segnale? «Ancora più semplice – sogghigna Davenport -. Il segnale è lei stesso. Per motivi di sicurezza, ancor più che per motivi di segretezza, se avessimo intenzione di portare bombe nucleari da queste parti nessun privato cittadino, men che meno un giornalista, potrebbe metter piede qua dentro».
E questa è già più comprensibile, effettivamente. Diciamo che si tratta di una visita a un museo di archeologia militare, con la particolarità che, già che ci sono 9 (presto ridotti a 8) bunker, lo zio Sam ha pensato bene di tirarli a lucido e di farne un negozietto efficiente di proiettili per pistole, fucili, mitra, in alcuni casi per lanciagranate (massimo quaranta millimetri). Servono per le esercitazioni dei militari della 173ª Brigata, e il gestore della baracca non è molto popolare tra i soldati. Per un semplice motivo: è rigidissimo e per portar via una cassa di munizioni dal Tormeno, oltre ad avere le carte in regola, occorre seguire una procedura severissima, che comprende la restituzione dei bossoli e l’eventuale rapporto ai superiori qualora da questa restituzione emergessero mancanze.
Scusi Mr. Davenport, ma come fate ad accorgervi se un soldato si tiene qualche proiettile? «Nulla sfugge – risponde serio il manager dell’Oklahoma – anche perché io non posso permettermi di scherzare quando faccio questo mestiere. Io parto da una filosofia di fondo severa ma inoppugnabile: ogni singolo proiettile che custodiamo qui al Tormeno è stato disegnato e realizzato per uccidere un essere umano. Possiamo essere "leggeri" quando distribuiamo queste casse?».
No, assolutamente no, anche se in un mondo ideale queste casse non dovrebbero nemmeno esserci. Ma il mondo in cui viviamo non è ideale, purtroppo, e se la guerra fredda non è diventata calda è anche per l’esistenza di depositi come questo. Comunque, finito il giro per i bunker, è interessante entrare nelle varie "officine" del Tormeno, dove tutto viene riciclato, compresi i bossoli.
«Vede quelle bilance? – chiede Davenport -. Ecco, quando il soldato ritorna dalla sua esercitazione butta i bossoli sul piatto e noi li pesiamo. Ogni bossolo ha un peso preciso, grazie al quale riusciamo a risalire rapidamente al numero di proiettili usati. Confrontiamo quel numero con il numero di proiettili consegnati e controlliamo che sia lo stesso».
Se ci sono discordanze, cominciano le rogne tra i manager dell’Asp 7 e i soldati. È per questo che Davenport, che è geneticamente all’opposto dell’elasticità, è una specie di incubo burocratico-amministrativo per quelli della 173ª. «Comprendiamo benissimo che qualche bossolo può andare perduto durante le esercitazioni – concede l’interessato – ma per giustificare queste mancanze serve l’autorizzazione di un ufficiale». Si possono intuire i tira e molla tra militari e controllori, e tra questi ultimi e gli ufficiali responsabili. D’altronde, come dice Davenport, ogni proiettile serve per uccidere un uomo. Non è il caso di lasciarsi andare con l’elasticità.
I bidoni sono carichi di bossoli, distinti per tipo: proiettili per pistola, per fucile, per mitra. «Teniamo tutto, nulla va gettato», assicura Davenport. In pratica è un magazzino con vuoti a rendere.
«Ah, scusi, dimenticavo un dettaglio fondamentale – conclude il responsabile dell’Asp 7 -. Ogni volta che c’è una spedizione da fare, che c’è un cario di munizioni da trasferire, i nostri mezzi e i nostri militari devono essere accompagnati dai carabinieri italiani. Ogni movimento è segnalato e seguito dalle autorità italiane. Queste sono le norme e noi le rispettiamo scrupolosamente. In Germania, dove ho lavorato fino a poco tempo fa, non è necessario seguire questa procedura. Paese che vai, regola che trovi. Noi, comunque, ci atteniamo».
La visita sta per finire, resta da vedere l’ufficio del capo, spartano, situato nell’ultima palazzina. «Ecco, venga. di sopra abbiamo una sorta di palestra», dice illustrando una vecchia stanza con attrezzature ginniche impolverate. Non è necessario, Mr. Davenport. «Noi non abbiamo segreti – tiene a sottolineare -. Che ne dice di un caffè americano?». Why not.
Dopo 50 anni. Prima visita guidata al deposito di munizioni di Arcugnano Non si muovono pallottole
senza l’ok dei carabinieri «Militari qui non ce ne sono, siamo “fornitori” dell’esercito Usa»
Chi fa la guardia alla Santabarbara della Setaf? I vigilantes della North East Service, per cominciare. «Ma non solo loro – assicura Terry Davenport, responsabile dell’Asp 7 del Tormeno -. Guardi qua dentro, in questo ufficio, c’è il mio collaboratore più fidato, lavora 24 ore al giorno». Apre la porta e, seduto ala scrivania, c’è un manichino col cappello da cowboy e con lo sguardo fisso sullo schermo.
«Nulla sfugge», ride Davenport. Non si riferisce all’amico cowboy, ovviamente, quanto piuttosto alle telecamere a circuito chiuso che monitorano ogni metro quadrato del deposito di munizioni. Un deposito strano, delimitato dalle pareti della collina e da un giro di recinzione mica da poco. Molto protetto, si direbbe, ma anche teoricamente vulnerabile, considerata l’estensione del perimetro.
In questi ultimi anni, però, ci sono meno timori. I bunker custodiscono munizioni, certo, che non sono noccioline; ma nemmeno quegli ordigni ad alto potenziali, meno che meno nucleari, di cui si narrava in passato. Ci sono però quelle ruspe, quei lavori, quei detriti che hanno scatenato una ridda di voci. Il comunicato ufficiale diffuso dalla Setaf spiegava l’arcano: «Questo progetto prevede il rifacimento delle coperture dei bunker del Tormeno fortemente deteriorati, nuova guaina impermealizzante e pacchetto drenante incluso il ripristino della terra sopra la copertura. Scavo attorno ai muri perimetrali per l’impermeabilizzazione ed installazione del nuovo sistema di drenaggio per le acque meteoriche incluso il ripristino della superfice erbosa».
Costo totale, 765 mila dollari. Il gergo tecnico può essere facilmente tradotto in una sola parola: lavoraccio. Ma la nuova strategia della trasparenza adottata dall’amministrazione americana consente di confermare quanto comunicato: al Tormeno stanno restaurando i bunker costruiti 50 anni fa. E dentro quei bunker noi abbiamo visto casse di munizioni.
Davenport mantiene la promessa e offre il solito beverone nero che in Oklahoma chiamano caffè. Spiega tutti i dettagli della macchina amministrativa che gestisce il sistema di fornitura delle munizioni e quasi gli viene da ridere a pensare al lavoro che sta facendo a Vicenza. Lo dice a bassa voce, ma rispetto a quel che faceva negli States, o in Germania, o in Turchia («Sono stato in servizio all’estero 17 anni»), al Tormeno gli pare di essere in vacanza.
Armi nucleari? Davenport ci porta nel suo ufficio, con aria di complicità. Alla parete, dove di solito sta il crocifisso, splende il manifesto degli Oklahoma Sooners, edizione 2000, quando vinsero il campionato di football americano. «Vede quei due pezzetti verde e rosso che stanno sulla scrivania? – dice -. Ecco, quelli me li sono portati per ricordo dalla Germania. Era il 1994, e ci fu un delicato trasferimento di armamenti. Io ho conservato gli inneschi che servivano per far esplodere il micidiale ordigno».
Non si può dire che abbia nostalgia di quei tempi, ma di sicuro a Vicenza fa una vita molto più tranquilla. «Quello del Tormeno è un negozio al dettaglio – esemplifica – e io non sono altro che il gestore. Ogni cassa che ha visto, ogni proiettile, ogni eventuale granata è registrata nel nostro sistema computerizzato. Il mio compito è fare in modo che le necessità dei militari della Ederle vengano soddisfatte da questo deposito. Per dire, all’inizio dell’anno, sulla base delle indicazioni del comandante, io stilo una sorta di budget. Poi contatto il deposito principale di Camp Darby, o a volte direttamente in Germania, per avere le munizioni in tempo utile».
Tutta un’altra faccenda sono i servizi di trasporto. Se, per esempio, i soldati della Ederle devono andare a esercitarsi in un campo di tiro indicato, o al poligono della caserma stessa, un ufficiale deve partire con i documenti, chiamare i carabinieri e recarsi al Tormeno, dove troverà il carico bello e impacchettato. Non si muove una pallottola senza i carabinieri.
«Anche questo è un lavoro delicato – osserva Davenport – perché non mettiamo in strada casse di arance. Con un pizzico di orgoglio vorrei ricordare un incidente capitato qualche tempo fa, in autostrada. Sì, capitano anche incidenti, è fatale che sia così: il nostro camion è finito fuori strada e si è distrutto. Bene, il "pacco" di munizioni che avevamo preparato qui al Tormeno non ha fatto una piega. Questo è il nostro business, per capirci».
Niente militari, dunque, per gestire il deposito. Solo professionisti che, come Davenport, magari provengono dall’esercito e hanno dunque una conoscenza approfondita dell’argomento. «Io tengo anche dei corsi per i soldati – rivela – e credo che questa sia una delle attività più importanti. Dobbiamo dare ai ragazzi che fanno questo mestiere tutte le istruzioni per usare al meglio gli strumenti che mettiamo loro in mano».
Quando tornerà in Oklahoma, mister Davenport? «Fra un anno, un anno e mezzo – risponde -. Mio padre non sta bene e ho voglia di tornare verso casa. Ma devo dire che qui a Vicenza si sta benissimo. Ricordo che avevo appena finito di ambientarmi in Germania, quando il mio capo mi chiese se volevo venire a dirigere l’Asp del Tormeno. Ho esitato un pochino. Poi ho guardato fuori dal mio cubicolo tedesco, ho visto un metro di neve e ho deciso subito di accettare la proposta. Ho fatto benissimo».
Il "caffè" va giù e, mentre Davenport torna a pensare all’Oklahoma, ecco che davanti al suo ufficio si mette a scodinzolare un cagnolino bianco e nero. «L’ho preso al canile di Marola – dice – e l’ho chiamato Sergent Ammo, cioè Sergente Munizione. Fa la guardia. Oddio, la guardia: diciamo che mi fa un po’ di compagnia».